L’ho fatto per un po’ perché lamentarmi fino ad annoiare anche me stessa è da sempre il mio primo passo verso il cambiamento.
E alla fine sono partita.
Avevo mille dubbi, ma allo stesso tempo la consapevolezza che le cose non succedono da sole ma bisogna farle accadere.
Sebbene resti convinta che il lavoro non debba essere la sola ragione di vita, sono anche consapevole che per la maggior parte di noi gente normale, esso costituisce un mezzo per arrivare alla felicità. Confesso che la spinta principale è arrivata proprio da questo.
Ho mollato il mio posto a tempo indeterminato, l’ennesimo sudato e meritato, l’ho lasciato perché lavoravo per sopravvivere, per pagare l’affitto, le spese correnti e le spese straordinarie che in realtà ricorrevano tutti i mesi, l’ho lasciato perché come tutti gli altri impieghi che ho avuto, doveva essere sempre accompagnato da un secondo lavoro, a volte anche da un terzo.
Sono partita perché ero circondata da tante dinamiche che non ero più capace di ignorare, tanto meno di sopportare, ma non avevo la forza di cambiare.
Sono partita con l’intenzione di dare un upgrade alla mia vita, facendo un’esperienza all’estero di sei mesi, nella peggiore delle ipotesi sarei potuta tornare indietro, scrivendo una lingua in più sul mio curriculum oltre all’italiano.
In realtà di lingue ne ho aggiunte tre e non sono mai più tornata in Italia, se non per chiedere ai miei ragazzi di sposarmi e di raggiungermi in Québec.
Sì, ai miei ragazzi, ma questa è un altro capitolo.
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